Paziente Esperto: multidimensionalità 
e attualità di un concetto 
in un contesto in evoluzione

Ornella Gonzato
Fondazione Paola Gonzato ETS
Tendenze Nuove, Numero 1 – 2024; 1-26: DOI: 10.32032/TENDENZENUOVE11012024.PDF


Introduzione

Nel contesto e nella lingua italiana, “paziente esperto” traduce le diciture anglossassoni “expert patient” e “patient expert”, che sottendono, in origine, concetti distinti, nonostante nel tempo il loro utilizzo, anche a livello europeo, risulti piuttosto indifferente, generando incomprensione e confusione di significato e ruolo. 

È possibile equiparare le due espressioni in oggetto, traducendole in italiano nei termini di “paziente esperto”?

Qual è esattamente il significato di “expert” e quale la sua relazione con i termini “experience” e “expertise”? Esiste il rischio di confondere il concetto di “esperienza del proprio vissuto” con quello di esperienza maturata all’interno di specifiche competenze acquisite e/o sviluppate sul campo (learning by doing)? Chi è precisamente un “paziente esperto”? Quali i requisiti da soddisfare per esser riconosciuto tale? Quali le finalità e i livelli di attività in cui il “paziente esperto” può/deve esser coinvolto? E ancora il termine “paziente” a chi si riferisce esattamente? A una categoria eterogenea di stakeholder di cui, di volta in volta, è necessario specificare CHI esattamente è interessato o esclusivamente a chi, affetto da una specifica patologia, vive quella definita condizione di malattia?

Ed infine, poiché in Europa l’elemento unificante delle organizzazioni pazienti, la maggior parte delle quali si fonda su base volontaria, è costituito da “una condizione condivisa di malattia” e non dalla condivisione di formazione/educazione/background, quale relazione intercorre tra “patient expert” e le organizzazioni di pazienti?

Il presente lavoro mira a stimolare una riflessione di contesto e a ridurre possibili incomprensioni, attraverso un’analisi delle definizioni di “expert patient” e “patient expert” assieme a una riflessione sulle loro relazioni con i concetti di “patient advocate” e “patient partner”, in uno scenario in evoluzione, caratterizzato dalla presenza di differenti stakeholder con differenti “drivers”.

L’analisi della terminologia privilegia la dimensione regolatoria, laddove applicabile, per due motivi principali: 

1.la definizione di “patient expert” nasce nell’area regolatoria di sviluppo e autorizzazione di un prodotto medicinale; 

2.il contesto regolatorio stabilisce per definizione regole ufficiali, a partire dalla terminologia (standard) allo scopo di dare univocità interpretativae supportare al meglio i diversi attori, facilitando le interazioni comunicative. 

Chiarire qui la terminologia in uso, con la consapevolezza della complessità del tema, ha finalità esclusivamente operative, allo scopo di: 

trovare una base comune e condivisa, riducendo il più possibile ambiguità interpretative, a beneficio sia dei “Pazienti” sia delle loro relazioni con altri stakeholder;

• supportare i diversi stakeholder dell’ecosistema salute a individuare CHI coinvolgere, migliorando efficacia e efficienza dei processi di “patient engagement/ involvement/participation”, troppo spesso dichiarati sul piano formale ma ancora distanti nella pratica, sia nell’area della ricerca sia in quella dell’organizzazione dell’assistenza sanitaria e dell’accesso a nuove tecnologie.

1. “Expert patient” e “patient expert”: 
differenze concettuali e applicative 

La definizione di “expert patient”, attribuita a Tuckett (1985), qualifica con il termine “expert” il sostantivo “patient”, a evidenziare il fatto che ogni paziente è “esperto” in quanto sviluppa/possiede l’esperienza del vivere con la propria malattia (illness). Secondo tale prospettiva, la relazione tra medico e paziente si concretizza nell’incontro – alla pari e con ruoli distinti- tra due “esperti”: da un lato il paziente, detentore dell’esperienza del vivere con la malattia (illness), dall’altro il medico, esperto della patologia (disease)(1,2).

La definizione di “expert patient” nasce e si sviluppa nel contesto della cronicità, comparendo ufficialmente per la prima volta nel documento ‘The Expert Patient: a new approach to chronic disease management in the 21st century’, approvato dal Parlamento britannico nel 2001 e divenuto parte integrante della programmazione del National Health Service (NHS)(3,4). Essa si fonda su due considerazioni di base:

1.i pazienti con patologia cronica hanno un’esperienza/conoscenza della malattia (illness) che nessun professionista può avere, poiché sperimentano quotidianamente le difficoltà;

2.l’esperienza e la conoscenza del vivere con la malattia (illness) costituisce una risorsanon utilizzata che invece, qualora fosse impiegata, potrebbe apportare beneficio: 

ai pazienti, per esercitare un controllo attivo –self-management– sulla malattia, contenendone l’impatto negativo sulla vita quotidiana,

ai professionisti per costruire, sulla base di una migliore e maggior informazione della vita dei pazienti, programmi di co-gestione più appropriati alle loro reali esigenze,

al sistema sanitario, sempre più gravato dal carico gestionale e finanziario di tali patologie(5,6,7).

Diverso è l’ambiente di sviluppo della dicitura “patient expert”, in cui “patient” qualifica il sostantivo “expert”, e che, in Europa, ha il suo principale fondamento nei documenti dell’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) relativi al percorso, intrapreso nel 1995 e rafforzato nel 2006 con l’istituzione del “Patients and Consumers Working Party (PWCP)”, per lo sviluppo e la gestione delle interazioni con i propri stakeholder(8). Tra questi documenti, si richiamano brevemente i seguenti due:

1.“Engagement Framework: EMA and patients, consumers and their organizations” (EMA/649909/2021), documento del 2022 che stabilisce obiettivi e metodologie per gestire le interazioni tra EMA e il Gruppo di stakeholdercostituito da “Pazienti, consumatori e loro organizzazioni”(9). Emerge subito che si tratta di un gruppo eterogeneo, di cui fanno parte sia organizzazioni sia singoli individui, coinvolti a differenti livelli e in relazione al tipo di attività previste. Ad esempio, le interazioni potrebbero richiedere la presenza di pazienti nella veste di rappresentantidelle rispettive Organizzazioni di appartenenza, oppure di rappresentanti dei Comitati Scientifici EMA (COMP, CAT, PDCO, PRAC1) quali membri effettivi, oppure anche di “esperti individuali” (“patients as individual experts”). La specificazione delle tipologie di attività chiarisce che ilcoinvolgimento di pazienti quali “esperti individuali” riguarda esclusivamente attività “prodotto specifiche”, inerenti al processo di valutazione di uno specifico prodotto medicinale(procedure di Scientific/Protocol Advice e di revisione della documentazione)(7,10). In questo ultimo caso, la finalità è precisamente quella di includere la prospettiva di chi, vivendo quotidianamente la condizione di malattia, può fornire input, a titolo assolutamente personale, per la valutazione di un farmaco e del suo utilizzo. Terminologia e concetti sottostanti coincidono qui con la definizione di “expert patient”. Tuttavia, “Register aspatient expert” (e non expert patient) è la denominazione utilizzata per il database EMA finalizzato a raccogliere i nominativi dei pazienti interessati a interagire con l’Agenzia(7,11,12)per quanto tutti i documenti ad esso correlati ribadiscano che il potenziale contributo dei pazienti come esperti si fonda esclusivamente sull’esperienza di vita reale e non necessita in alcun modo di background nell’area medica o regolatoria(13). Un recentissimo case-study relativo al valore generato dall’inclusione dei pazienti proprio nelle procedure di Scientific Advice di EMA (attività “prodotto specifica”) ha fornito evidenza, con dati raccolti in un periodo di 4 anni, dal 2017 al 2020, che “patients fill an important gap by providing real-life experience of the conditions and their treatments”, sottolineando nuovamente che per la selezione dei pazienti coinvolti nelle attività di Scientific Advice “having followed a training course on medicines’ development is beneficialbut not a pre-requisite for involvement(14). Compete infatti a EMA fornir loro il supporto informativo/educazionale strumentale- ovvero le “competenze” necessarie- per la piena partecipazione alle attività stabilite.

2. “Patients and Healthcare Professionals Training strategy for patients and consumers involved in EMA activities (EMA/664931/2014 Rev. 1)” è il documento che definisce e approfondisce la strategia dell’EMA per la formazione/training di due specifici gruppi di stakeholder, tra cui quello dei “Pazienti”. Con la finalità di ottimizzare tutti i possibili contributi, EMA offre e supporta programmi di formazione/training differenziando contenuti e modalità (video, webinar, seminari, informative, ecc.) in relazione ai diversi soggetti coinvolti nelle diverse tipologie di attività. In tale contesto, lo sviluppo di competenze si configura completamente strumentale all’effettivo coinvolgimento dei pazienti nei processi regolatori del farmaco15. In sintesi, il concetto di “paziente esperto” pur rimanendo centrato sul “chi possiede esperienza di cosa significhi vivere con una specifica condizione di malattia” tende ad assumere, attraverso lo sviluppo di conoscenze/competenze in una precisa area- in questo caso quella regolatoria del farmaco- una valenza ulteriore che ne estende il significato. Accanto a “expert patient” compare così la terminologia “patient expert”(7,12).

Patient expert” è la definizione utilizzata anche da EUPATI (European Patients’ Academy on Therapeutic Innovation) in seno al progetto formativo/educativo avviato con IMI (Innovative Medicines Initiative) nel 2012, finalizzato a sviluppare conoscenze e competenze idonee per un coinvolgimento attivo (engagement) dei pazienti lungo l’intero ciclo di vita di un farmaco, dalla fase di ricerca e sviluppo alle fasi di sperimentazione non-clinica e clinica, dai processi regolatori per l’autorizzazione alla farmacovigilanza e all’ Health Technology Assessment (HTA)(16,17). In particolare, secondo le definizioni elaborate da EUPATI2Patient Experts” sono coloro che “in addition to disease-specific expertise, have the technical knowledge in R&D and/or regulatory affairs through training or experience(18). La qualifica di “paziente esperto” viene riconosciuta con il rilascio di una certificazione al completamento di un percorso formativo/educazionale (formazione non formale ovvero che non rilascia certificati a valore legale) – EUPATI Patient Expert Training– rivolto sia a pazienti e loro rappresentanti sia a chiunque(cittadino)possa esser interessato, andando oltre il concetto stesso di “patient”(19,20,7).Il titolo di “patient expert” si configura come prerequisito per un coinvolgimento efficace ed efficiente in specifici ambiti di intervento/aree tematiche, come emerge dagli stessi documenti sviluppati da EUPATI (“There are four separate guidance documents covering patient involvement in: Pharmaceutical industry-led medicines R&D, Ethics committees, Regulatory authorities, Health technology assessment (HTA)(21).

In termini generali, si può quindi sostenere che:

identificare precisamente le aree di “expertise” (“paziente esperto in …”(22,23)

specificare le finalità e gli obiettivi di conoscenza/competenza/esperienza da raggiungere (obiettivi formativi) e i requisiti da soddisfare in ingresso

individuare i percorsi formativi, distinguendo tra diverse possibili opzioni- formazione formale, non-formale, informale- e identificare gli enti autorizzati/accreditati a erogare la formazione necessaria (le norme ISO 29993: 2017 e ISO 21001: 2018, revisioni della ISO 29990: 2010 “Learning services for non formal education and training”, sono lo standard internazionale di riferimento per la formazione non formale (24,25,26)) siano “conditio sine qua non” per poter qualificare e riconoscere un soggetto come “patient expert” in un determinato ambito di competenza. 

La definizione di EUPATI di “patient expert” – distinta da quella di “individual patient/lay patient”- è stata ripresa, integralmente o lievemente modificata, mantenendo invariato il significato, da altri Stakeholder e compare in alcuni importanti documenti. Tra di essi, val la pena di citare:

il documento (2021) “Principles of successful Patient involvement in CANCER research (Berlin Declaration- EU against cancer-NP Initiative of the Trio Presidency of the EU council Germany, Portugal, Slovenia”(27)– relativo al coinvolgimento (involvement) dei pazienti nel contesto della ricerca oncologica – che riporta esattamente la definizione di cui sopra (“Patient experts” coloro che, in aggiunta alla conoscenza della patologia (disease), possiedono/hanno acquisito “conoscenze tecniche” relative ai processi di Ricerca e Sviluppo (R&NOD) e/o dell’area regolatoria).

• il documento “Recommendations for patient organisations and patient advocates on their involvement in collaborative research projects” elaborato da Patvocates per Rising Tide Foundation con la finalità di sviluppare un approccio innovativo per il concreto coinvolgimento dei pazienti nella ricerca (“Patient Experts” have both disease-specific expertise and knowledge in research and/or drug regulatory affairs through training or experience. For example, EUPATI provide training for patient experts in the research and development of medicines.” Il documento ribadisce la necessità di chiarire che sebbene i “lay patients”, ovvero coloro che sono privi di qualsiasi esperienza nella ricerca, possano fornire input validi, un coinvolgimento efficace richiede spesso “qualcosa in più della propria personale esperienza (con la malattia)” (requires more than just personal experience). E questo qualcosa in piùtrova espressione nei seguenti termini: “Wider community insights and/or technical training may be additionally needed”, chiamando in causa i concetti di competenze tecniche e/o di rappresentatività della comunità di riferimento.(28)

2. Patient advocate e patient advocate expert

Alla luce di quanto sopra riportato, è utile esplicitare che “patient expert” non equivale a “patient advocate(7). Sempre con riferimento in Europa alla classificazione EUPATI “patient advocates“sono “coloro che hanno capacità di visione e di esperienza tali da supportare una comunità di pazienti affetti da una specifica malattia(18)mentre “persona o gruppo di persone, che possono o meno far parte di una specifica popolazione/comunità pazienti, che ha/hanno un ruolo nel promuovere una causa influendo sulle politiche a beneficio della salute dei pazienti cui si riferiscono” è la definizione di “patient advocate” riportata nel Glossario FDA “Patient-Focused Drug Development Glossary Standardized nomenclature and terminologies related to patient-focused medical product development (2018)(29). Secondo questa prospettiva, appare più evidente anche la ragione per cui “non tutti i pazienti sono advocates e non tutti gli advocates sono pazienti(30)

Va tuttavia osservato che non esiste una definizione univoca di “patient advocate”: in assenza di una tutela del titolo, diversamente da quanto avviene in qualsiasi ambito professionale, chiunque può definirsi tale. Pertanto non sorprende che sotto una medesima etichetta siano inclusi concetti assai diversi tra loro. Negli USA, “patient advocate” viene utilizzato talvolta come sinonimo di “patient navigator”, ovvero di chi supporta il paziente, dal punto di vista organizzativo/gestionale, nel percorso attraverso le strutture sanitarie(31,32). In Europa, talvolta è confuso/equiparato con “patient activist”; altre volte sostituito con “patient representative(33)o, in alcuni casi, con “expert patient” in modo da eliminare, con quest’ultima definizione, ogni possibile connotazione di dissenso/rivendicazione o di class actioncontro lo status quoma aumentando l’ambiguità (“for some patient advocates are individuals or groups who are adversarial in their interactions with industry or regulators. To avoid misunderstanding, this document will use expert patient and patient groups to describe individuals and organizations who are working to advance treatment development.”)(34).

Il termine “advocacy” deriva dal latino “ad vocare” letteralmente “chiamare a sé; chiamare in aiuto qualcuno”. Nonostante le molteplici definizioni e modelli sviluppatisi nel tempo vi è consenso generale nel considerare che il concetto di “advocacy” implichi sempre il coinvolgimento di “una persona che rappresenta un’altra/una persona che chiede/perora per conto di un’altra” o ancor meglio “agisce per conto di chi è vulnerabile e lo richiede(35,36,37,38,39). Ne consegue che chiunque abbia interesse può svolgere attività di “advocacy” a beneficio di un paziente. Se non si può disconoscere che i professionisti sanitari agiscano come “advocates” per i propri pazienti, non si può neanche non riconoscere che vi siano aspetti dell’”advocacy” in cui i pazienti/loro organizzazioni possono apportare un contributo che nessuna altra Parte possiede, ovvero la prospettiva unica di chi vive sulla propria pelle una patologia/condizione di salute(30,40). Emerge qui anche una differenza sostanziale tra il concetto di “health advocacy”, come azione esercitata non direttamente da pazienti e finalizzata ad apportare beneficio a livello del singolo, e quello di moderna “patient advocacy”, in cui sono i pazienti/loro gruppi e rappresentanti ad agire, far sentire la propria “voce”, cercare soluzioni capaci di consentire/migliorare l’accesso ai trattamenti a beneficio della comunità di riferimento(41,7). “Making a difference”, sintetizza la visione strategica delle Organizzazioni di patient advocates che agiscono per influire sulle decisioni a livello politico-istituzionale- e a tutti i livelli necessari- allo scopo di ridurre iniquità d’accesso a farmaci e trattamenti, assicurando il rispetto dei diritti dei pazienti con una specifica patologia/condizione di salute. 

Storicamente, sono stati i pazienti con HIV/AIDS a creare negli anni ‘80 un “movimento” che si batteva per un cambiamento dello status quoa beneficio della comunità dei pazienti, influenzando le istituzioni per accelerare la ricerca e l’accesso ai farmaci, dando vita al più grande network al mondo di studi clinici sulla malattia e ponendo così le basi di un modello di “advocacy” a cui altre comunità di pazienti si sono successivamente ispirate. Negli anni ’90, sempre negli USA si afferma l’azione di “advocacy” della comunità “breast cancer” il cui raggio d’intervento si estende dall’influenza sulle istituzioni al coinvolgimento concreto nella ricerca, con l’avvio del Breast Cancer Research Program gestito dall’US Department of Defence(42,43,44,45)

Esprimere i propri bisogni, esplicitare le difficoltà/preoccupazioni, consigliare strategie di miglioramento per un coinvolgimento nei processi decisionali ed esercitare un’azione a livello politico, sociale, culturale per rispondere a quei bisogni” è la ragion d’essere della moderna azione di “patient advocacy”, sintetizzata nel principio di “empowerment”, inteso in senso collettivo, che assieme a “rappresentanza e mobilitazione” ne costituiscono le fondamenta(46). Si delinea così uno spazio d’intervento più ampio e un ruolo diverso rispetto a quello attribuito a un’azione di “advocacy” descritta a lungo semplicemente come “attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni relativamente a un determinato gruppo di patologie/pazienti(47). Alcuni Autori identificano anzi quest’ultima tipologia di attività come una delle fasi – solitamente iniziale – del percorso evolutivo di un’azione di “advocacy” matura e moderna, il cui obiettivo è influire a tutti i livelli decisionali necessari, ponendosi come partner in un contesto d’interazione efficace tra differenti stakeholder, per trovare assieme soluzioni/risposte adeguate(48). Si tratta di un raggio d’azione che va oltre ogni “attivismo” – laddove questo sia identificato come azione di difesa di diritti, di “class action” in contrapposizione allo “status quo” – per diventare più propriamente “partnership”, ovvero capacità di agire con gli altri stakeholder, interni ed esterni al sistema, per rimuovere gli ostacoli che impediscono o limitano l’accesso ai migliori trattamenti possibili nel rispetto dei propri diritti(7,48)

L’acquisizione di conoscenze e lo sviluppo di competenze nelle diverse possibili aree d’intervento(ricerca, organizzazione dell’assistenza, accesso ai farmaci, HTA, ecc.) si possono configurare anche in questo ambito come strumentali all’efficacia dell’azione di advocacy che tuttavia ha un campo d’azione ben più ampio. In altri termini, esse costituiscono condizione necessaria ma nonsufficiente, differenziando concettualmente, oltre che nella terminologia, “patient advocate” da “patient expert”, aprendo piuttosto la strada a una nuova definizione, quella di “patient advocate expert(49)– specificando l’area di competenza/“esperto in …) – che include la dimensione di competenze tecniche come fattore strumentale e aggiuntivo per una maggior efficacia dell’azione di advocacy in specifici ambiti.

Questo chiarimento è funzionale anche per una riflessione critica – e auspicabilmente una loro modifica- su alcuni elementi di ambiguità presenti nel nuovo Codice Deontologico Italiano di Farmindustria del 2023, che, nella sezione relativa ai rapporti tra aziende farmaceutiche e pazienti/loro organizzazioni, inserisce i “pazienti esperti” (“Rapporti tra le Aziende Farmaceutiche, le Associazioni dei Pazienti e i Pazienti esperti” punto 4.6), come tipologia di soggetti, distinta e aggiuntiva. Sono “pazienti esperti” quei “pazienti che, oltre ad avere conoscenza diretta della patologia, sono dotati di specifica competenza ed esperienza in aspetti connessi alla ricerca e sviluppo dei farmaci, alleattività regolatorie o in attività di advocacy intesa quale capacità di promuovere e supportare le cause e le necessità di una pluralità di pazientiTali competenze dovranno essere effettive e documentabili e potranno essere corredate da certificazioni o attestati rilasciati a seguito di partecipazione a corsi e programmi formativi realizzati da terze parti qualificate ed indipendenti(50)

Infine merita soffermarsi sul fatto che, così come “non tutti i pazienti sono advocates e non tutti gli advocates sono pazienti”, non tutte le organizzazioni di pazienti sono organizzazioni che svolgono attività di advocacy(30). Solitamente, la maggior parte agisce erogando un insieme di servizi utili a supportare la comunità di riferimento senza per questo voler intervenire a livelli decisionali in sedi istituzionali e/o influire sull’agenda politica. In questo caso “patient representative” e “patient representative expert” – specificando l’area di competenza (“esperto in…”) – potrebbe essere la terminologia più appropriata da utilizzare per indicare rispettivamente: i) l’appartenenza a un’organizzazione di pazienti, di cui si rappresentano bisogni/aspettative e ii) l’(avvenuta) acquisizione di conoscenze/competenze in precise aree, agendo per conto e in rappresentanza dell’interesse dell’organizzazione a cui si appartiene e non a titolo individuale. 

In Italia, il recente caso sollevato dalla delibera della Regione Toscana (Del. 702 del 20/06/2022) “Linee di indirizzo sul coinvolgimento del paziente esperto nel percorso di acquisto di dispositivi medici” porta in primo piano la questione della dimensione individuale verso quella collettiva del “paziente esperto”, ovvero della relazione tra la figura individuale “formata” attraverso uno specifico percorso e la sua capacità di rappresentare o meno istanze associative. La Delibera definisce il “paziente esperto (PE)” come:

paziente non solo esperto della propria malattia ma che ha anche una conoscenza che può esser definita accademica della patologia e delle modalità con le quali questa viene prevenuta, diagnosticata e trattata

persona con patologia cronica oppure oncologica oppure rara (o caregiver) che oltre all’esperienza di malattia abbia acquisito una formazione tecnica riguardo ad argomenti inerenti lo sviluppo di farmaci o dispositivi medici, erogata da un ente formatore riconosciuto. Il PE deve avere una certificazione che qualifichi il suo percorso di formazione

figura che ha acquisito negli ultimi anni una rilevanza assimilabile a quella dell’operatore sanitario, in grado di operare sia come soggetto attivo, responsabile di ricerca in gruppi o network di pazienti, sia come consulente della ricerca industriale o accademica per fornire pareri o consigli(51)

A seguito della reazione di un gruppo di associazioni che sottolineavano, in una “Lettera aperta al Presidente della Regione Toscana, Assessore Sanità e Direzione Generale ESTAR”(52), tutta le loro perplessità rispetto a una delibera da cui emergeva una figura di PE indipendente dai contesti associativi, la risposta dell’assessore alla Sanità chiariva che “la scelta della Regione Toscana è una scelta che vuole coinvolgere di più e non escludere le associazioni dei pazienti… Il “paziente esperto” non deve esser visto come una figura di paziente quale è nominato/indicato…Concludendo, l’intento della delibera è quello di far rappresentare le Associazioni dei pazienti dal “paziente esperto” intendendo con questo termine una persona affetta da malattia o caregiver che abbia anche una formazione specifica nel settore di farmaci e DM, potenziando e rendendo ancor più strutturale e concreta la possibilità per le Associazioni di incidere sulle scelte che riguardano i pazienti(53).

3. Da “patient expert” a “patient partner” 

Nel recente Glossario della Food&Drug Administration- FDA (“Patient-Focused Drug Development Glossary Standardized nomenclature and terminologies related to patient-focused medical product development (2018))(29)che accompagna le 4 Guide elaborate in seno al Patient-focused drug development (PFDD), Programma FDA sviluppato in accordo con il “21st Century Cures Act and the FDA Reauthorization Act of 2017”(54)con l’obiettivo di “incorporare” la voce dei pazienti nello sviluppo e valutazione dei farmaci, è assente la definizione di “patient expert”, mentre per la prima volta compare quella di “patient partner”: An individual patient, caregiver or patient advocacy group that engages other stakeholders to ensure the patients’ wants, needs and preferences are represented in activities related to medical product development and evaluation.”

In Europa, EMA ha elaborato un recentissimo documento che, muovendo dalla necessità di includere la prospettiva dei “pazienti”, sia nei processi regolatori di valutazione di un farmaco sia in quelli del suo sviluppo industriale, pone le basi per lo sviluppo di successive Linee Guida ICH. La finalità è quella di definire un approccio metodologico robusto e armonizzato, capace di strutturare gli input/contributi forniti dai pazienti per informare al meglio i processi decisionali a diversi livelli, incluso quello della valutazione economica delle tecnologie (HTA). Il documento non è accompagnato da un glossario; fa riferimento genericamente a “pazienti e loro caregiver quali partner” di autorità regolatorie e di produttori farmaceutici; tuttavia, evidenzia che il crescente sviluppo di azioni di “advocacy e engagement” dei pazienti ha generato un contesto ricco ma ancora complesso a cui far riferimento per incorporare la prospettiva dei pazienti, rendendo così più che mai critico lo sviluppo di un approccio metodologico(55).

Una prima riflessione è d’obbligo. Muovere concettualmente da una definizione di “patient expert” a una di “patient partner” significa fondamentalmente portare l’attenzione sulla relazione che intercorre tra i soggetti. 

Partnership” indica la dimensione della relazione tra individui o organizzazioni caratterizzata da collaborazione, decisioni condivise (shared decision-making), mutua fiducia e impegno a raggiungere obiettivi di interesse comune. Il concetto di “patient partner” richiede pertanto di ripensare gli attuali modelli di relazione/interazione tra i soggetti coinvolti nell’area della salute, dalla ricerca all’organizzazione dell’assistenza sanitaria. Richiede un cambiamento culturale nella sua totalità, tenendo presente che il coinvolgimento dei pazienti come partnernon può essere strumentale a mettere la spunta in una casella (ticking the box) che ne conferma solo la presenza formale nè riguardare principalmente interventi/attività a basso impatto/basso ritorno per i pazienti(56,57)

La definizione del concetto e della filosofia sottostante a “patient partner” è riconducibile principalmente al modello sviluppato in Canada- Università di Montreal, dal “Centre of Excellence for Partnership with Patients and the Public (CEPPP)” la cui mission è quella di generare un approccio culturale nuovo nell’area della salute attraverso collaborazioni (relazioni efficaci) con pazienti e cittadini. (“Our Mission: To make collaborating with patients and the public a science, a culture and the new standard to improve the health of all and the (health) experience of each.”)(58). “Co-build, co-lead, co-innovate in partnership” sono le azioni per trasformare l’approccio tradizionale in cui i pazienti sono considerati essenzialmente nel loro ruolo di “partecipanti”, ovvero soggetti su cui condurre studi clinici, oppure in quello di utenti/fruitori/consumatori (a seconda del tipo di sistema sanitario in essere) di servizi sanitari, mentre restano fondamentalmente esclusi dalle corrispettive scelte di progettazione, erogazione e valutazione. Come specificato da CEPP “…patients can be more active in research, care, governance and medical education through meaningful collaboration with the team, referred to as patient engagement/partnership. In this context, patients become partners in the project and can actively participate in governance, health priority setting, research question development and knowledge transfer, all to ensure that investments in the healthcare ecosystem are better aligned with the interests and priorities of patients and their families.”(59)

Condizioni preliminari per un efficace partnership sono educazione e formazione, con chiara identificazione del tema/area oggetto di sviluppo delle conoscenze. Questo vale non solo per i pazienti ma anche per i ricercatori(“Training curriculum to train researchers and patient partners on the basic concepts and steps to build an effective patient partnership relationship) in una bi-direzionalità di approccio per un mutuo apprendimento strumentale alla realizzazione di partnership effettive(60). Costruire un futuro di collaborazioni, aprendo alle differenti esperienze e conoscenze dei diversi attori per includerle e trasformarle in valore per il sistema, è la visione nuova per una salute partecipata e responsabile, dalla dimensione più umana in uno scenario di medicina sempre più di precisione e personalizzata ma al contempo in sistemi sanitari sempre più sofferenti per la scarsità delle risorse.

In assonanza con il concetto di “patient partnership, vi è quello di “participatory approaches”, terminologia attualmente in uso anche nell’area della salute per indicare un insieme di filosofie, strategie, metodologie volte al coinvolgimento, lungo l’intero processo di realizzazione di un intervento (servizio/prodotto), a iniziare dalla sua co-progettazione (co-design), di coloro che ne sono i destinatari (end users)(61,62). Il coinvolgimento di end usersnello sviluppo di prodotti e servizi ha una lunga tradizione nel settore business con lo scopo di rendere i prodotti più idonei a soddisfare bisogni e attese dei consumatori, aumentandone in ultima istanza la fedeltà d’acquisto. 

Se la definizione “partecipatory approaches” sottende un concetto ampio applicabile a diverse aree/settori di attività, la “patient partnerships” si delinea più precisamente come un’applicazione del concetto e sue metodologie all’area della salute identificando nei pazienti gli “end users” da coinvolgere per migliorare processi e risultati. “The science of patient input”, ad esempio, è la denominazione, nata negli USA alcuni anni fa, per identificare un nuovo campo del sapere la cui finalità è quella di sviluppare metodologie rigorose al fine di integrare al meglio la prospettiva, i bisogni, le priorità (patient input) dei pazienti nel continuum della ricerca, sia relativa al farmaco sia ai dispositivi medici e in generale a nuove tecnologie biomediche e bioingegneristiche in seno a collaborazioni multistakeholder (organizzazioni pazienti, industria, accademia, enti filantropici, agenzie regolatorie)(63).

In modo analogo, “Early HTA” è un nuovo approccio culturale e metodologico che si sta sviluppando nell’area dell’HTA. Se l’HTA risponde fondamentalmente al quesito relativo alla decisione su quali tecnologie sanitarie allocare al meglio le risorse scarse del sistema (“Is it worth it?”), l’”early HTA” risponde alla domanda di come estrarre il maggior valore per i pazienti dall’impiego delle risorse disponibili (“How to get best value for patients out of the available money?”)(64,65,66,67,68,69). In questo senso, l’early HTAconsidera strategico includere fin dall’inizio, in un dialogo multistakeholder, gli inputdei pazienti, per comprendere al meglio i loro bisogni, preferenze e feedback e soprattutto formulare “the right questions”, i quesiti giusti a cui dar risposta, puntando a ridurre il grado d’incertezza che accompagna lo sviluppo di una nuova tecnologia.

La logica di “partnership” non riguarda tuttavia solo l’area della ricerca o dell’accesso alle nuove tecnologie ma è applicabile a ogni area di interesse/intervento che abbia impatto sui pazienti, a partire dall’organizzazione dell’assistenza sanitaria, in particolare nei sistemi sanitari a finanziamento pubblico, in cui i pazienti sono sia “end users” sia “stakeholders”. Anche in questo caso si pone a monte una questione di definizione di CHI esattamente coinvolgere in relazione ai livelli d’intervento e decisionali necessari a raggiungere obiettivi stabiliti, in un’area che si estende dall’identificazione e prioritizzazione dei bisogni alla programmazione e valutazione dei servizi sanitari. Ciò, in ultima istanza, richiede di focalizzare l’attenzione sui requisiti di competenza/esperienza ma anche, laddove necessario, di rappresentanza/rappresentatività in seno all’eterogeneità del gruppo “Pazienti” nonché sui processi di formazione/educazione – e affidabilità dei loro erogatori – per lo sviluppo di profili idonei a co-programmare, co-progettare e co-valutare oltre che a rappresentare, ogni qualvolta necessario, i bisogni e le criticità della comunità di riferimento.

Muovendo dalla considerazione che la “partnership” tra fornitori di servizi sanitari (sia clinici sia manager) e consumatori è elemento essenziale per la programmazione, erogazione e valutazione dei servizi, e più in generale per un’organizzazione dell’assistenza centrata sulla persona (person centered-care), una recentissima review pubblicata su Cochrane Library indaga sul come le due parti attrici vedono e percepiscono il rapporto di “partnership”(70). Lo scopo è quello di individuare sia i fattori limitanti per poter intervenire sia i punti di forza per delineare i principi di “best practice”. Lo squilibrio di potere tra le parti, generato da 5 diverse categorie di fattori – tra cui il contesto politico, le modalità di coinvolgimento dei consumatori, le dinamiche di svolgimento del processo (modalità di gestione di riunioni e di presa di decisioni) – è il tratto che emerge e che costituisce l’ostacolo da rimuovere per realizzare un’effettiva partnership. La percezione dei consumatori di non partecipare realmente, ma di essere coinvolti solo formalmente in rapporti di partnership, di non incidere nei processi decisionali, di sentirsi frustrati e “intimiditi” dall’uso di un linguaggio tecnico dei professionisti, di mancanza di rispetto e valorizzazione del proprio contributo esperienziale sono tutti elementi di criticità che devono esser rimossi e che indicano la necessità di un cambiamento culturale per un mutuo rispetto e valorizzazione. La formazione/educazione sia dei consumatori sia dei professionisti sanitari si configura ancora una volta essenziale per una partnership che non sia solo di forma (“ticking the box”), pena una diseconomia in un contesto di risorse già scarse.

Il concetto di “patient partnership” merita un’ulteriore riflessione per le assonanze che presenta anche con quei modelli di “open innovation” propri di settori e contesti caratterizzati da elevata innovazione. “Open innovation” nel mondo business si riferisce a un insieme di differenti modelli, ciascuno con proprie strategie e caratteristiche, ma con un elemento comune, quello dell’apertura a “stimoli esterni” attraverso collaborazioni multistakholder, capaci di creare un ambiente dinamico in cui conoscenze/competenze/esperienze dei diversi stakeholder/player concorrono a generare nuove idee e a trasformarle in possibili soluzioni, attraverso processi di co-progettazione e co-realizzazione. In altri termini sono modelli di interazione tra attori diversi per poter affrontare sfide nuove, spesso ad elevato grado di complessità, accelerando l’innovazione

L’area della rarità, con riferimento sia alle malattie rare sia ai tumori rari, con i suoi unmethigh-unmet needs offre, ad esempio, più di altre un terreno fertile per lo sviluppo di nuovi modelli caratterizzati da innovazione e strette collaborazioni multistakeholder. Negli USA sono stati sviluppati modelli in cui i pazienti/le loro organizzazioni sono andati ben oltre il “coinvolgimento” in progetti di ricerca, agendo come soggetti imprenditoriali capaci di indirizzare e guidare la ricerca (“patient-driven research”)(71,72), per accelerare quell’innovazione necessaria a trovare soluzioni terapeutiche nuove a problemi complessi e/o a bisogni di scarso interesse commerciale a causa della scarsità dei numeri. 

Nella prospettiva di innovazione di modelli si colloca anche il framework dell’EMA (STAMP) finalizzato a facilitare iniziative multistakeholder e collaborazioni pubblico-privato nell’area degli “unmet needs”, supportando organizzazioni non-profit (definite “champion”) che abbiano interesse, ma non le necessarie competenze, per avviare processi di “drug repurposing”, strategia volta a identificare nuovi usi di medicinali già autorizzati – e fuori brevetto- per indicazioni terapeutiche diverse da quelle originarie(73,7).

In aggiunta, in questo scenario di innovazione di modelli di relazione tra le parti, vale la pena citare l’art 72 del Reg EU 536/2014, relativo alla “co-sponsorizzazione”, che stabilisce che “una sperimentazione clinica può avere uno o più promotori”, lasciando aperta la possibilità che uno di questi possa essere costituito anche da “Pazienti”.(74)

4. Paziente, caregiver, cittadino: dimensione 
individuale e collettiva

Un altro punto su cui val la pena infine soffermarsi, con riferimento alla definizione di “patient expert/paziente esperto”, oggetto centrale di questo lavoro, è il termine “patient” che qualifica “expert”. I programmi di training EUPATI per “patient expert” – che non si focalizzano su alcuna specifica malattia/area terapeutica ma su processi comuni relativi allo sviluppo e autorizzazione di un farmaco – sono rivolti non solo a pazienti o loro rappresentanti, ma anche a chiunque abbia interesse ad acquisire conoscenze/competenze nei temi di cui sopra. Questo genera ulteriore confusione rispetto a una definizione di “patient expert” che in origine esplicita che la conoscenza tecnica è sempre “inadditionto disease-specific expertise”.

EMA utilizza i termini “Patients, Consumers and their Organizations” evidenziando immediatamente tre tipologie di soggetti – distinguendo un livello individuale e uno collettivo– incluse nel gruppo eterogeneo di stakeholder con cui interagisce, precisando che: 

  1. individual patients or carers are people with experience of living with a particular condition who are interested in engaging with EMA”; 

2. “patient organisations are defined as not-for profit organisations that are patient focused,and where patients and/or carers (the latter when patients are unable to represent themselves) represent a majority of members in governing bodies”.(9)

Con riferimento alla caratteristica di “patient focused” delle “organizzazioni di pazienti”, merita evidenziare che “patient-centered” e “patient-centric”, che ne costituiscono ulteriore specificazione, permettono di distinguere rispettivamente tra organizzazioni/attività “guidate” da bisogni e preferenze dei pazienti (patient-centered) e organizzazioni “a guida” di pazienti/caregiver (patient-centric).(75). Non si tratta di una questione “accademica” ma pragmatica che investe in ultima analisi anche la definizione di “patient representative” (rappresentante dei pazienti) sollevando il quesito in merito ai requisiti di CHI rappresenta/guida organizzazioni pazienti (patient-focused). Se si accoglie ad esempio la definizione riportata dal Glossario della Food&Drug Administration – FDA “Patient-Focused Drug Development Glossary Standardized nomenclature and terminologies related to patient-focused medical product development (2018)(29)di “Patient representative” quale “An individual, who may or may not be part of the target population, who has direct experience with a disease or condition(e.g., a patient or caregiver) and can provide information about a patient’s experience with the disease or condition” sorge la domanda circa la coerenza e l’opportunità che questo ruolo sia ricoperto da CHI non è paziente affetto da una specifica patologia né carer (familiare) di paziente, evitando di chiarire se si tratti di organizzazioni “patient-centered” o fondate sulla “patient centricity” con differenze rilevanti nel background di conoscenze, competenze, esperienze di chi le guida e conseguentemente nelle strategie e capacità di realizzazione.

Nell’area oncologica italiana, ad esempio, questa distinzione concettuale e sostanziale trova spazio, seppur con terminologia diversa, anche nel recente documento AGENAS “Il ruolo delle associazioni di volontariato, di malati e di attivismo civico nelle reti oncologiche”, in cui si evidenzia l’opportunità di “marcare la differenza tra associazioni di volontariato e associazioni di pazienti” al fine di valorizzare le differenze “nel mondo fortemente plurale del non profit”. Le Organizzazioni di malati sono definite come “organizzazioni che rappresentano e sostengono i bisogni dei pazienti e dei caregiver con riferimento a una specifica patologia… Enti che prevedono espressamente nell’atto costitutivo o statuto l’assenza di fini di lucro, la democraticità della struttura e l’elettività delle cariche associative, i cui organi di amministrazione o indirizzo debbano esser composti, per espressa previsione statutaria, in maggioranza da malati di cancro, lungosopravviventi, ex malati. Tale definizione è costitutiva di una specifica categoria di enti non profit caratterizzata non tanto dalla presenza di malati tra gli associati quanto dalla loro partecipazione agli organi di amministrazione e indirizzo o comunque nelle sedi dove si definiscono le linee programmatiche dell’ente…(76).”

Oltre ai “pazienti” in senso stretto, il gruppo di stakeholder “Pazienti” individuato da EMA include anche i “Consumers”, in ultima istanza i “cittadini” e loro organizzazioni, definite quali “not-for profit organisations that defend and promote the general interests of European consumers – citizens as purchasers or users of goods and services.(9)

L’individuazione di un gruppo di stakeholder così eterogeneo, che si estende dal paziente, al caregiver al cittadino, sia nella dimensione individuale sia collettiva, trova riscontro anche nella definizione iniziale di “Public Involvement” adottata dal National Institute for Health Research (NIHR), dove “public” si riferisce a “patients, service users, survivors, carers and family members”, sostituita poi da “Patient and Public Involvement (PPI)” a distinguere tra “patient” in senso stretto e il più generico “public”(77). NIHR fornisce programmi di training per sviluppare le conoscenze necessarie per il coinvolgimento nella ricerca sanitaria e sociale a chiunque abbia interesse, inteso quale insieme di pazienti, pazienti potenziali, caregiver, utenti di servizi, cittadini(78)

La distinzione tra il coinvolgimento dei “cittadini” e dei “pazienti” in senso stretto, emerge anche nel contesto italiano. Con specifico riferimento all’area oncologica, il Documento di revisione delle Reti Oncologiche del 2019, che riconosce ufficialmente le Associazioni oncologiche quali articolazioni funzionali delle Reti, distingue tra “attivismo civico”- definito come “ pluralità di forme con cui i cittadini si uniscono, mobilitano risorse e agiscono nelle politiche pubbliche, esercitando poteri e responsabilità al fine di tutelare diritti…” e “coinvolgimento istituzionale”- descritto come “coinvolgimento attivo di pazienti/familiari e cittadini rispetto alla propria salute e alle scelte conseguenti nella programmazione, progettazione, erogazione, valutazione dei servizi” – che prevede “la partecipazione ai livelli rappresentativi e direzionali..” per le associazioni dei pazienti oncologici(79). Non si tratta di sinonimi: il coinvolgimento istituzionale rappresenta di fatto l’evoluzione dell’attivismo civico, grazie al livello di maturità e preparazione tecnica raggiunto in questo caso dall’associazionismo oncologico, a partire dal Piano Oncologico Nazionale (PON) del 2011(80)e rafforzato nel PON 2023-27 in cui si auspica l’integrazione dell’associazionismo oncologico in un “progetto globale(81).

Coinvolgimento attivo” – riferito alla dimensione collettiva- è il termine utilizzato nel Codice del Terzo Settore (D.Lgs117/2017), che, all’art 55, specifica “le amministrazioni pubbliche, nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi…,assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento…”(82). L’accreditamento degli ETS in generale, e in particolare nell’area oncologica dove, come sopra riportato, si va differenziando tra organizzazioni di volontariato e organizzazioni di pazienti, porterà sempre più l’attenzione sulla dimensione collettiva (organizzazione) piuttosto che su quella individuale. Tuttavia, conoscenze/competenze/formazione/esperienze dei singoli non potranno non essere questioni centrali, come lo sono per qualsiasi organizzazione in ogni settore di attività per misurarne performance e impatto. A maggior ragione quando si tratta di svolgere attività di co-progettazione con i diversi stakeholder dell’ecosistema salute.

5. Conclusioni

La non univocità della terminologia in uso sottolinea l’esistenza di un dibattito assolutamente aperto in un contesto in evoluzione. 

Alla luce di quanto sopra esposto e utilizzando come riferimento i seguenti tre dominii:

esperienza del vivere con la malattia (experience)

competenze tecniche (expertise in specifiche aree tematiche sia nella ricerca sia nell’organizzazione dell’assistenza)

rappresentatività della “comunità di riferimento”, chiarendo se la ragion d’essere e le finalità costitutive siano improntate all’azione di advocacy o meno, distinguendo così rispettivamente tra “Organizzazioni di pazienti” e “Organizzazioni di patient advocates”

si può ragionevolmente sostenere che attualmente la definizione (in inglese, per evitare le ambiguità di cui nella trattazione):

expert patient”o “individual patient” o “lay patient” attiene al primo dominio ed evidenzia il fatto che ogni paziente è in grado di offrire la propria esperienza e prospettiva. Non viene richiesta alcuna competenza tecnica, fatta eccezione per l’eventuale acquisizione di conoscenze specifiche (expertise) sulla patologia;

patient expert” attiene al primo e al secondo dominio- per quanto non necessariamente il primo, dato che alcune interpretazioni “estese” includono anche i “cittadini” nella definizione di “patient”. Tale definizione costituisce essenzialmente una qualifica, un pre-requisito per un efficace coinvolgimento in processi e attività a diversi livelli;

patient representative o patient advocate (a seconda della ragion d’essere e finalità costitutiva dell’organizzazione), nell’accezione europea attuale, attengono al primo e al terzo, sottolineando la dimensione “collettiva” rispetto a quella “individuale”;

patient representative expert o patient advocate expert attengono a tutti e tre i dominii. 

La definizione di “patient partner” sottende invece più propriamente un approccio culturale, una filosofia e una visione che riguardano la dimensione della relazione tra “Pazienti” e altri stakeholder, prima ancora di entrare nel merito dell’eterogeneità dei componenti del gruppo “Pazienti” e dei requisiti necessari per un loro coinvolgimento efficace. Sistemi di incentivazione o sanzione potrebbero accelerare questo percorso culturale, come si sta già sperimentando in alcuni contesti, sia negli USA sia in Europa.

Le definizioni si configurano strumentali per poter individuare CHI possiede i requisiti appropriati per esser coinvolto in un preciso livello di intervento (“the right person in the room”), avendo prima individuato e chiarito finalità, obiettivi tra le parti coinvolte. La finalità è ottimizzare e valorizzare il contributo di ciascuno degli attori, migliorando al contempo l’efficienza e l’efficacia dei processi sottostanti.

Rimane infine del tutto aperta una riflessione su come denominare/riconoscere coloro che, come chi scrive, possiedono un background professionale in area scientifica/life science (valore legale del titolo) nonché in area regolatoria, sono/sono stati caregiver (o sono pazienti), hanno maturato competenze ed esperienze – a livello nazionale e internazionale- come patient advocatee/o hanno fondato organizzazioni di pazienti diventando a tutti gli effetti “patient representative”. Può esser questa considerata una fattispecie di “formazione informale” o piuttosto “super formale”? E quale il valore di queste “figure” nell’ecosistema salute?

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79.Atto n. 59/CSR -17/04/19 «Revisione delle Linee Guida organizzative e delle raccomandazioni per la Rete Oncologica che integra l’attività ospedaliera per acuti e post acuti con l’attività territoriale». https://www.statoregioni.it/media/1614/p-2-csr-atti-rep-n-59-17apr
2019.pdf

80.Piano Oncologico Nazionale 2011.

81.Piano Oncologico Nazionale 2023.

82.Decreto Legislativo 3 luglio 2017, n. 117. Codice del Terzo settore.

1COMP: Committee for Orphan Medicinal Products; CAT: Committee for Advanced Therapies; PDCO: Pediatric Committee; PRAC: Pharmacovigilance and Risk Assessment Committee

2EUPATI, muovendo dalla constatazione che il termine “pazienti” è spesso utilizzato in modo generico e impreciso, inidoneo a cogliere le differenze di input e di esperienza richieste ai differenti soggetti raggruppati sotto una medesima “etichetta”, chiarisce la terminologia utilizzata nei propri documenti riguardante i potenziali ruoli dei pazienti, identificando i seguenti: individual patients, carers, patient advocates, patient organization representatives, patient experts. 

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